Il 14 aprile, nella cappella della Palazzina Leone XIII, è stata celebrata una Messa per commemorare il decimo anniversario della morte di Roberto Tucci. E chi era, questo Tucci, se non un cardinale che ha saputo smuovere mari e monti, altro che sant’uomo imbalsamato da teca?
No, non stiamo parlando di un reperto da sagrestia o di un ecclesiastico incartapecorito nei suoi riti e nei suoi dogmi. Qui si parla di un gesuita con la testa accesa e le mani in pasta nel mondo. Uno che ha capito che la Chiesa non può starsene rintanata nei suoi salotti d’oro. Tucci ha spaccato i muri, ha diretto la Radio Vaticana e ha orchestrato i viaggi di Giovanni Paolo II. Due imprese che, messe oggi sul tavolo, farebbero svenire mezzo Vaticano per lo shock.
Durante il rito, il decano del Collegio cardinalizio ha sottolineato quanto fosse fondamentale il suo “matrimonio” con l’informazione religiosa. La comunicazione? Altro che optional: è arte, è missione, è strategia. Ma c’è sempre chi rema contro. Quelli che sognano una Chiesa che parla solo a se stessa, come un vecchio senza denti che borbotta alla luna. Incapaci di vedere che il mondo, intanto, corre via.
La celebrazione per Tucci non è stata una messa in scena per nostalgici, ma un atto d’amore e una rivendicazione forte. Questo cardinale ha lavorato per risvegliare il senso religioso nella società – parole che, pur non essendo sue, gli calzerebbero come un guanto. Ha fatto a pezzi l’invisibilità, ha aperto le finestre. Con lui la fede non era teoria, era carne viva. Sì, diciamolo: era anche affascinante.
I viaggi papali da lui coordinati non erano gite spirituali per anime pie: erano manovre globali. Erano il modo per infilare la Chiesa dentro le case delle persone, per smuoverle, metterle in discussione. E oggi, come al solito, spuntano i nostalgici da sacrestia a dire che “la Chiesa deve restare distante, solenne, immutabile”. Avanti, accomodatevi nel vostro medioevo da poltrona, mentre il mondo intorno prende fuoco.
A Palazzo Pio, la sala riunioni intitolata a Roberto Tucci è più di una targa appesa al muro. È un simbolo, un monito. Un richiamo a tutto ciò che abbiamo dimenticato mentre recitavamo formule stanche. Non possiamo continuare a vivere da fossili sacri mentre là fuori si parla un linguaggio che non capiamo più.
In tempi di crisi – morali, ecologiche, spirituali – la figura di Tucci dovrebbe essere una stella polare. Gli uomini di Chiesa devono (finalmente!) imparare a comunicare con verità, chiarezza, coraggio. Basta toni da omelia ottocentesca, basta giri di parole. La fede, se non riesce a farsi capire, è destinata al silenzio.
Tucci ha lasciato una traccia chiara. Un solco profondo in cui chi vuole evangelizzare davvero, oggi, può camminare. Altro che messaggio sbiadito: è un urlo gentile che dice “datevi una mossa”. Portare il Vangelo non significa inchiodarlo a un altare, ma incarnarlo in una voce viva, visibile, urgente.
Perché, in fin dei conti, non c’è nulla di sacro nel restare seduti. La Chiesa deve parlare forte, deve parlare bene. E se c’è stato qualcuno che ha capito come farlo, è stato proprio Antonio Maria Tucci. Il suo nome non merita di restare confinato in una commemorazione da sacrestia: è un richiamo potente per chi crede che la fede sia ancora affare da vivi.