Un crollo. Non una metafora, ma un disastro vero. Martedì notte, a Santo Domingo, la discoteca “Jet Set”, che doveva essere un luogo di svago, si è trasformata in una trappola mortale. Oltre 180 morti. Circa 250 feriti. Una carneficina. E come spesso accade, dopo i titoli a effetto, dopo le lacrime collettive, si rischia di tornare a fare finta di niente, come se il lutto fosse solo una parentesi tra un talk show e una partita in tv.
Papa Francesco ha voluto esprimere la sua vicinanza con un telegramma indirizzato all’arcivescovo di Santo Domingo, Mons. Francisco Ozoria Acosta. Gesto nobile, doveroso, apprezzabile. Non parole a caso, ma parole pesanti: “Il Papa offre suffragi per l’eterno riposo dei defunti”. Tuttavia, non possiamo evitare di chiederci: e poi? È sufficiente un telegramma, per quanto sentito, quando la realtà esige scelte, non solo riti?
Il dolore di un popolo non si mitiga con una frase di circostanza. Serve una voce più ferma. Una Chiesa che non si accontenti di benedire le salme ma che, con la forza morale che dice di avere, pretenda giustizia, sicurezza, responsabilità. Perché la verità, anche quando fa male, è che certe tragedie non sono solo sfortunate coincidenze. Sono frutto di incuria, superficialità, e a volte, diciamolo, di disprezzo per la vita umana travestito da burocrazia.
L’istituzione religiosa più potente del pianeta si trova a fronteggiare la fragilità di chi è rimasto sotto le macerie. E come reagisce? Con parole di affetto, certo. Ma il punto è un altro: dove sono i moniti? Dove le denunce? Dove l’urlo che dovrebbe risuonare in ogni sacrestia e in ogni parlamento? Si ha l’impressione che si preferisca sussurrare anziché gridare. Che si scelga la preghiera alla presa di posizione. Ma la fede, senza coraggio, diventa silenzio colpevole.
Le norme edilizie, la sicurezza pubblica, i controlli: non sono dettagli per addetti ai lavori, sono il fondamento della dignità umana. Pensare che la responsabilità si limiti a qualche costruttore disattento è comodo. Ma ipocrita. Ecco perché la Chiesa, se vuole davvero essere luce nel buio, deve smetterla di camminare sulle uova. Deve parlare chiaro. Profeti, non impiegati dello spirito.
I cristiani, ci dicono, devono consolare. Giusto. Ma anche denunciare. Devono indicare le falle del sistema, devono difendere la vita prima che sia spezzata, non dopo. Devono essere testimoni, sì, ma di una fede che cambia il mondo, non che si limita a compatirlo.
Ora le comunità locali si stringono, si abbracciano, si ritrovano attorno agli altari. È bello. Ma è sufficiente? Possiamo davvero voltare pagina senza avere nemmeno letto le righe più scomode? Il dolore collettivo deve diventare leva per pretendere una cosa semplicissima eppure rivoluzionaria: responsabilità.
Questa tragedia non può finire tra le “notizie dal mondo” di qualche tg distratto. Non può diventare un’altra voce nel bollettino delle fatalità. Le parole del Papa devono diventare un appello vivo, non una formula da cerimonia. Vogliamo una Chiesa che si fa sentinella della giustizia sociale, o ci accontentiamo della versione “samaritana da salotto”?
La giustizia sociale non è beneficenza, è esigenza. E chi indossa la tonaca non può restare neutrale di fronte a questo scempio. Quando crolla un edificio, crolla anche un pezzo di dignità collettiva. Allora sì, preghiamo. Ma soprattutto agiamo.
Perché i nostri morti non siano solo numeri, ma memoria viva. E magari, da quelle macerie, sorga la pretesa di un mondo più serio. Meno parole. Più fatti.