Il Pontefice, quel povero illuso in bianco – sì, perché bisogna essere un po’ illusi per continuare a credere nel cambiamento della Chiesa – ha parlato. E, come spesso accade, non ha paura di puntare il dito contro i suoi stessi soldati in tonaca. Nella Messa Crismale di Giovedì Santo, apparentemente un teatrino liturgico di routine ma che, per chi conosce un minimo di ecclesiologia, è sempre un mix di carezza e randellata, il nostro Francesco ha lanciato il suo ennesimo anatema: basta clericalismo. Una medicina che sa di fiele, ma che a Roma, a quanto pare, serve come l’aria.
Un appello, sì, ma di quelli che arrivano come un ceffone in pieno viso. “Ricominciare” è la parola magica – e magica davvero, come le illusioni che servono a far credere ai fedeli che qualcosa stia cambiando. Il Papa parla di conversione come se fosse la panacea universale, e non le manda a dire: non basta una nuvoletta d’incenso e via andare, serve un cambio di passo, un’azione vera. “I poveri, i bambini, le adolescenti, le donne” – insomma, tutto quel mondo che da secoli ha fatto i conti con le ipocrisie ecclesiastiche – “hanno il fiuto dello Spirito Santo”. E chi siamo noi per contraddirli? Forse i preti, chiusi nei loro fortini dorati, dovrebbero domandarsi: ma lo seguiamo davvero, questo Spirito?
Nel gran circo della religione, i clericali sono sempre in prima fila. Vestiti come per una sfilata medievale, recitano il ruolo di custodi di una Tradizione che ormai è diventata una zavorra. Il clericalismo – diciamolo – è la vera eresia: una religione nella religione, fatta di formalismi, di potere e di comode abitudini. E Francesco, con il piglio di chi sa bene di combattere una guerra già persa in partenza, si scaglia contro questi patriarchi impolverati che vedono nel cambiamento una bestemmia.
Chiedere ai preti di pregare? Paradossale, quasi grottesco, eppure necessario. La gente ha fame di verità, non di omelie riscaldate come il minestrone della mensa. C’è bisogno di preti vivi, veri, che non si nascondano dietro la stola ma che si sporchino le mani. E invece, che fanno molti di loro? Si barricano nel potere, usano il pulpito come scudo, dimenticando che il Vangelo non è un manuale d’istruzioni ma una chiamata alla vita. E il Papa, stavolta, non ci gira attorno: l’unica risposta alle “tremende ingiustizie” è una Chiesa che sanguina insieme al mondo, non che si limita a versare qualche lacrima di coccodrillo.
Siamo nel 2025, per amor del cielo, e ancora ci tocca ascoltare le geremiadi di certi preti che parlano come se fossimo nel 1625. È ora di finirla con questa nostalgia da sacrestia. I preti non possono più permettersi il lusso di ignorare la fame, la povertà, la disperazione che bussa alle porte. Non basta più celebrare la Messa con la voce impostata e poi chiudersi nel proprio fortino come certi feudatari del sacro.
Quando Francesco ha detto che i sacerdoti devono essere “annunciatori di speranza”, non era in vena di poesia. Era un grido, un pugno sul tavolo. Il clero attuale è come un telefono scollegato: suona, ma non risponde nessuno. Non si tratta di rivoluzioni, ma di decenza. Di quella minima responsabilità che consiste nel guardare in faccia chi soffre e dire: “Ci sono anch’io”.
Il Papa, pur carico della Tradizione che pesa come una tonnellata di piombo sulle spalle, ha il coraggio – e diciamolo, anche un certo gusto per la provocazione – di ricordare che senza cambiamento si muore. Basta con i balletti liturgici che sembrano coreografie da museo. La compassione non è un accessorio, è il cuore del Vangelo. E se non lo si capisce, tanto vale chiudere bottega.
Nemmeno l’amarezza latente che aleggiava sulle celebrazioni ha fermato Francesco. Ha lanciato una stoccata a cuore aperto: “Se non siete preti, cosa siete?” Un interrogativo che taglia come una lama. Perché la gente, alla fine, vuole solo una cosa: sapere che qualcuno si prende cura di lei. E questo, cari sacerdoti, è il vostro mestiere. Non quello di fare i burocrati del sacro.
La Messa Crismale dovrebbe essere una chiamata alla responsabilità, non una rappresentazione teatrale in abiti d’altri tempi. E invece, la solita farsa: una Chiesa troppo spesso chiusa in se stessa, che si parla addosso e si compiace. Allora basta, si spenga la luce, si chiuda il sipario, e si riparta da capo. Dall’inclusione, dalla realtà, dalla vita vera.
Un appello, come detto, può essere molto più di una predica. E il Papa, anche in assenza fisica, ha fatto tremare i banchi: svegliatevi, state in guardia, e soprattutto, non voltate le spalle. Perché il rinnovamento non si fa da soli, ma insieme. E se non ci si muove, non resta che vivere di rimpianti. E di nostalgia, quella sì, che non porta da nessuna parte.
Il messaggio del Papa è chiaro: sveglia! La Chiesa ha bisogno di una rivoluzione estetica e morale. Non può più chiudere gli occhi davanti al mondo che crolla. E se i nuovi preti non sono pronti, beh… che si facciano da parte. Perché il tempo delle liturgie sorde è finito. E chi non lo ha capito, rischia di restare sul palco a recitare da solo, davanti a una platea vuota.