Ci siamo. La salute di Papa Francesco pare in ripresa. Dal solito limbo ovattato del Vaticano, la sala stampa – che per una volta non si perde in bizantinismi – ci fa sapere che il Pontefice respira meglio, ha meno bisogno di ossigeno, insomma, tiene botta. Un segnale, quasi un sussurro: “Non mollate, c’è ancora benzina nel motore”. Ma non raccontiamoci favole. Non stiamo parlando di un semidio con l’aureola d’oro, ma di un uomo, vecchio e stanco, che continua a tenere la barra dritta in mezzo a un mare infestato dagli squali. E molti, purtroppo, sono travestiti da pastori.
Eppure eccolo lì, Francesco. Esce dalla sua stanza, si fa vedere in carrozzina tra le navate di San Pietro. Gesto enorme. Non solo pastorale, ma profondamente politico. È un corpo che si espone, che non si nasconde. Dice: “Ci sono, eccomi”. Mentre lui si mostra così com’è – fragile, sì, ma presente – tanti altri si tengono al riparo, dietro veli, dietro formule, dietro agende. La sua fragilità è uno schiaffo a chi pensa che la forza si misuri in potere. La sua debolezza è più profetica di mille omelie.
Ora arriva la Settimana Santa. Ce la farà? Officierà? O dovremo sorbirci il solito cardinale con la voce impostata e il cuore in modalità aereo? Non è questo il punto. Il punto è che anche se non lo farà, se non potrà esserci, lui c’è già. C’è come presenza viva, come sfida incarnata a una Chiesa che non sa più che farsene della carne.
Sì, il Papa resta malato. E quindi? Il problema non è la sua salute. Il problema è che molti la usano come pretesto. I segnali di fumo arrivano già dai palazzi vaticani: si scaldano i motori, si lucidano le pianete, si fanno prove di conclave non dichiarato. C’è chi aspetta. C’è chi spera. E no, non sperano nella guarigione. Sperano nella fine. Sperano nel reset. In un ritorno all’ordine, quello vecchio, quello stantìo, quello di sempre. Il Papa a letto, e loro col calendario in mano.
Il meteo fa notizia. Ma le vere tempeste sono sotto la tonaca. Quelle della curia, dove si muove la palude. Dove si prega da una parte e si tramanda il veleno dall’altra. Dove si fa finta di onorare Francesco, ma si sogna già un altro nome, un altro stile, un’altra agenda. Altro che pioggia: questa è grandine su una barca già sballottata.
Eppure, proprio ora, il Papa è più forte che mai. Perché non recita. Perché non recede. Perché resta lì, con la schiena curva ma lo sguardo fisso. E invece tanti, troppi, si rifugiano nei pizzi e nel latino, nei distinguo da seminarista, negli anatemi su chi ama “troppo fuori dalle regole”. Ma chi vuole una Chiesa senza lacrime, senza sangue, senza lotta, vuole un museo, non un Vangelo.
Francesco ha sempre parlato chiaro: misericordia, accoglienza, periferie. Parole che a molti danno fastidio. Perché costano. Perché ti sporcano le mani. Ma è lì che la Chiesa trova senso. O torna a essere casa per chi non ha casa, o non è più nulla. È solo burocrazia col crocifisso appeso.
La salute del Papa è lo specchio della Chiesa e del mondo: fragile, confusa, a tratti smarrita. Ma viva. E in quella fragilità c’è la verità. C’è il nodo. C’è la lotta. Lui combatte. Noi, spesso, guardiamo. E intanto c’è chi organizza il dopo, chi prepara il vestito buono per il funerale, chi ha già la penna pronta per la nota di cordoglio. Vergogna.
Serve una sveglia. Non al Papa, ma a noi. A chi nella Chiesa si è messo comodo, in poltrona, aspettando che tutto passi. Ma la vita vera pulsa fuori, nei margini, tra chi soffre, tra chi non ha risposte. E se la Chiesa non torna lì, allora non torna da nessuna parte.
No, non sarà facile. Ma basta pantofole. Basta latinorum per pochi intimi. Basta con i sepolcri imbiancati col profilo social. Serve carne, anima, voce. Serve verità. Serve gente viva, con le vene scoperte. La scelta è nostra. E stavolta, non c’è più tempo per gli inciampi. Né per i sepolcri che si credono santi.