Le undici suore di Vittorio Veneto: La fuga dalla “prigione spirituale”

Le undici suore di Vittorio Veneto: La fuga dalla “prigione spirituale”

Nella quiete solo apparente di Vittorio Veneto, undici suore hanno detto basta. E mica con una letterina di lamentele: hanno preso e se ne sono andate dal convento, sbattendo la porta in faccia a un sistema che profuma più di muffa gerarchica che di incenso. Un’uscita di scena clamorosa, che ha svelato il vero volto di una gestione ecclesiale fuori tempo massimo, incapace di capire il mondo fuori dalla sacrestia.

Le suore, in fuga come dal bunker di un regime, non parlano di crisi vocazionale, ma di vera e propria prigionia. Una di loro ha sentenziato: «Non siamo animali dietro le sbarre». E c’è da crederle. Quelle mura, invece di proteggerle nella preghiera, le soffocavano. Tra regole più dure del regolamento di Alcatraz e imposizioni surreali, il convento è diventato un lager spirituale. Poi è arrivato pure il commissariamento, l’ultimo chiodo sulla bara della loro libertà. A quel punto, il monastero non era più un luogo sacro, ma una succursale del Ministero del Controllo Totale.

E nel teatrino, la parte dell’antagonista se la prende l’ex badessa Aline, cacciata come un sacco d’immondizia sacra dal nuovo abate, reo di averla vista troppo spigliata nel maneggiare il potere. Ma attenzione: qui non si parla di ambizioni papaline, ma di dignità calpestata. «Basta falsità», ha tuonato lei. E come darle torto? In una Chiesa dove la verità si serve solo se ha il nulla osta in curia, chi alza la testa finisce sempre per essere additato come il nemico della pace. Quando invece, forse, è l’unico che prova ancora a respirare.

Nel paese, intanto, la guerra dei balconi è cominciata. C’è chi vede le suore come eroine di libertà, e chi, nostalgico del Rosario forzato, le accusa di aver distrutto una pace millantata da decenni. Ma si sa: quando la polvere si posa sul silenzio, tutti scambiano la ruggine per stabilità. Il problema non è che le suore se ne sono andate. Il problema è che c’è voluto tutto questo perché qualcuno si accorgesse che il sistema faceva acqua da tutte le parti.

E adesso? Ora inizia il balletto dei decreti, delle cause legali, dei comunicati stampa pieni di parole vuote come «discernimento», «prudenza» e altre amenità da manuale del bravo parroco aziendale. Ma la questione è un’altra: la spiritualità non è una catena di montaggio. E chi comanda, troppo spesso, lo fa senza più ascoltare chi la fede la vive sulla pelle, ogni giorno.

La battaglia è aperta. Non solo tra le suore e la gerarchia, ma dentro la Chiesa stessa. Chi ha paura della libertà, si trincera dietro i regolamenti. Chi invece ha fede vera, capisce che la regola ha senso solo se serve a far fiorire, non a soffocare. E qui, a soffocare, sono stati in tanti. Aline, le undici suore, e pure una fetta importante di fedeli che si sentono sempre più estranei a una Chiesa che parla di misericordia e agisce da commissariato.

Il caso di Vittorio Veneto è il campanello d’allarme che risuona forte, pure nelle orecchie di chi fa finta di non sentire. Altro che crisi vocazionale: qui c’è un sistema che scricchiola perché ha perso l’umano. E se l’umano non lo recupera, finisce che invece di convertire il mondo, si chiude nel bunker dei dogmi in scadenza.

Serve ascolto, non bavagli. Serve autorità che accompagna, non che comanda col bastone. Serve una Chiesa che non abbia paura del dissenso, perché solo chi è insicuro di sé lo reprime. E se non si capisce questo, allora non si sta guidando una comunità di credenti, ma si sta amministrando un carcere con vista sull’altare.

Il finale? Non è ancora scritto. Ma una cosa è certa: chi si gira dall’altra parte oggi, domani si ritroverà a sorvegliare un deserto di vocazioni, e a pregare in cattedrali vuote. Perché la vera missione della Chiesa non è blindare le regole, ma aprire le porte. Anche a chi ha il coraggio, finalmente, di uscire.