Sumy, un attacco durante la Pasqua: la vergogna della guerra

Sumy, un attacco durante la Pasqua: la vergogna della guerra

Il 13 aprile 2025, a Sumy, Ucraina, un attacco missilistico russo ha spezzato l’illusione di una celebrazione pacifica. Niente di sacro quando i missili Iskander piovono sulla gente comune. È una strage, un massacro, un affronto all’umanità e alla fede. 34 morti, tra cui sette minori. Una barbarie che sfida ogni principio etico e cristiano. Non c’è un posto in cui incasellare simili orrori, solo una realtà che ci sbatte in faccia la brutalità.

Zelensky, come al solito, grida contro i “bastardi” che compiono tali atti. Parole dure? Giuste, ma necessarie. Siamo nel bel mezzo di un conflitto che non si ferma. Trump, l’ex presidente, ha il coraggio di dire che forse è stato un “errore”. Mentre il mondo si fa una preghiera, c’è chi minimizza. Politica che gioca con le vite, come se i morti avessero un colore da attribuire.

La guerra tra Ucraina e Russia non conosce pause. Morti, famiglie distrutte. I colloqui diplomatici? Più stagnanti di un pantano. Si chiacchiera, si cede a cene e convenevoli, ma niente cambia. I bombardamenti continuano e la speranza sembra morta prima dei civili.

Il bombardamento di Sumy è una manifestazione della strategia di Putin. Un martellamento continuo su una nazione già devastata, come se la vita dei civili fosse solo un calcolo da rigenerare. Media e report continuano a raccontare scene agghiaccianti. Autobus colpiti, corpi per strada, video di madri in lacrime. E mentre nel mondo si invocano leggi internazionali, a Sumy il dolore non ha voce.

Keith Kellogg, inviato speciale degli Stati Uniti, ha parlato di “superamento dei limiti della decenza”. La verità è che quando i limiti sono stati superati, siamo già oltre il punto di non ritorno. La brutalità è fuori controllo. L’umanità non ha più il potere di fermarla.

E poi, i giochi di potere. Una condanna comune del G7? Neanche a parlarne. Gli Stati Uniti non vogliono perdere il dialogo con Mosca. Politica che si fa comodità. Le parole dolci non salveranno nessuna vita. Biden, dopo l’attacco, parla di “future trattative su basi militari”. Ma che cosa vuoi trattare quando i missili volano e i civili cadono? Le giustificazioni diventano teatrali. “Scusate, non volevamo colpirvi”. Ma questi attori sono pessimi.

Il governo ucraino ha ragione a essere arrabbiato per le parole di Trump. In un momento come questo, ogni parola pesa. Eppure sentire un ex presidente dire che è stato un errore? È assurdo. Stiamo parlando di morti, di famiglie distrutte. E Trump minimizza? È vergognoso. Le parole non sono più solo parole, sono vita e morte. Non c’è tempo per giochi di diplomazia.

Le preghiere delle comunità religiose ucraine sono l’unica cosa che resta. Ma la realtà è che sono vuote, tanto quanto le promesse di pace. Cosa fare con i missili che piovono e i corpi che si accumulano? Più armi? Più risoluzioni vuote? Il dramma è che l’unica risposta che ci danno è il suono di una guerra che non si ferma.

Nel frattempo, l’Ucraina piange la perdita di una parte della sua leadership. Il governatore regionale, Volodymyr Artyukh, cacciato da Zelensky. Un bel gioco di poltrone mentre la guerra continua. Ma chi risponde per le vite perse? Nessuno. Le giustificazioni non bastano più. L’inefficienza ha un prezzo troppo alto.

Il conflitto si è trasformato in un inferno senza fine. Gli attacchi ai civili sono ormai la norma. Ma cosa vogliamo fare? Sacralizzare la guerra? Che senso ha celebrare un conflitto che si nutre di violenza e odio? La brutalità non fa prigionieri e continua a segnare la direzione di questo disastro. Nessuna sacralità nei missili, solo morte. La guerra diventa una realtà quotidiana. E chi prega, dovrebbe essere consapevole che anche i martiri sono esseri umani. Non sono angeli, ma carne e sangue, sepolti nel fango.

La vita continua con le sue atrocità. La domanda è: quante altre vite dobbiamo perdere? Quanti altri pianti, quante altre famiglie distrutte, prima che l’Occidente decida di intervenire? O continuerà a chiacchierare nei salotti dell’arroganza? Se non si agisce, la guerra diventerà la nuova normalità. Abbiamo bisogno di un confronto vero, non di parole vuote. Il dolore cresce e la pace si allontana. Non è solo una questione politica. È questione di sopravvivenza morale.

Le parole di chi discute della guerra non servono a nulla. La guerra non è una questione di chi ha ragione. È questione di chi soffre. La vera chiamata al cristianesimo è quella di abbracciare i sofferenti, lavorare per la pace. Ma oggi, mentre il mondo si perde nei discorsi, le immagini di Sumy ci ricordano che il vero dolore è quello che non ha parole. Non è più una questione di ideali, ma di esseri umani.

Ogni decisione che viene presa pesa sulla nostra coscienza collettiva. La guerra, i missili, le vite spezzate: questi sono i veri problemi. La politica che non capisce la sofferenza è la politica che ci condanna. Finché permettiamo ai missili di parlare più delle preghiere, non possiamo dire di essere umani.