La Settimana Santa in Italia è un bel palcoscenico. Non per tutti, ovvio. Ma per alcuni sì. E non sempre il ruolo che viene recitato è quello del credente o del penitente.
Le processioni aprono il sipario, ovunque. Suggestive, certo. Ma tra abiti antichi, fiaccole e file di uomini che camminano, i telefoni alzati per immortalare la scena sono immancabili, dappertutto. E viene spontaneo chiedersi: stiamo assistendo a un rito o a una grande messa in scena? La Coena Domini, celebrata con la dovuta solennità, è seguita con rispetto. Ma, anche qui, basta un po’ più di attenzione, e ti accorgi che gli occhi del pubblico sono più sul frame, sulla cornice, che sul contenuto. Poi c’è quell’antica tradizione del “Desclavament”: gesto di forza, simbolo di passione. Ma tra una lacrima vera e la ricerca del click perfetto, c’è chi sembra più preoccupato di quest’ultimo, piuttosto che di capire cosa sta succedendo.
Poi, altrove, la tradizione resiste in modo diverso, più semplice. A Montalbano, in Puglia, per esempio. Il “Canto all’uovo”. Gesto arcaico, nulla di che. Volontari che portano auguri e uova alle famiglie. Niente effetti speciali. Non serve, perché lì la fede non si esibisce. Si vive. Nessuno chiede applausi. E forse è proprio questo che commuove.
Poi, sempre al Sud. Riti antichi, saturi di storia, di Spagna. Processioni silenziose, volti coperti, incappucciati, passi che sembrano andare al ritmo di un tempo che non c’è più. Ma intorno, purtroppo, troppi obiettivi, telecamere, luci. E sempre, qualche volta, qualcuno che scivola, troppo teatrale, nella parte sbagliata. Quella del protagonista.
La Via Crucis: da qualche parte si recita, troppo. Attori professionisti, scenografie curate. Nulla da dire sulla qualità. Ma davvero serve una performance per trasmettere il messaggio? Non basta la Passione, di per sé, a scuotere senza prove generali? Non siamo mica alla Scala.
Questa ostentata bellezza barocca è tipica del Meridione. Luci, decori, pathos. Processioni che sembrano sfilate. Devoti scalzi, immortalati come star. Il sacro ridotto a estetica. Non da chi crede. Da chi guarda. Peggio. Qualcuno si mette in mostra, come se fosse una prima. E non solo tra i fedeli ci sono i vanitosi. A volte quelli che vogliono esser visti sono proprio loro: quelli che dovrebbero educare al silenzio, al senso del sacro. C’è chi, tra i sacerdoti, aspetta la Settimana Santa come i cantanti aspettano Sanremo. Non per celebrare, ma per essere celebrato. C’è chi entra in chiesa con passo lento, sguardo assorto, incenso come controluce – mancherebbe solo il sottofondo di Morricone. Chi imposta l’omelia come se stesse facendo una telepromozione, chi si presenta al talk serale con faccia da opinionista e abito da cerimonia. C’è chi scambia il Triduo per una passerella, chi si fa largo tra le processioni con il curriculum in mano, tra una benedizione e un’intervista per ottenere visibilità.
Dicono di voler evangelizzare. Ma sembra che vogliano firmare autografi. La fede non è share. Non lo è mai stata. Lo diceva Benedetto XVI, con la lucidità di chi aveva capito tutto, e oggi suona come ammonimento:
“La liturgia non è uno spettacolo. Il vero attore è Cristo. Più ci si mette al centro, più lo si oscura.”
Eppure oggi si rischia che anche il Triduo diventi un bel trailer. E allora ti chiedi: cos’è rimasto? Molto, per fortuna. Ma va cercato altrove. Nelle pieghe del silenzio. Nei canti stonati. Nelle mani giunte di chi ha rughe e cicatrici, non filtri e cornici. C’è chi crede con il cuore spaccato in due, chi bacia la croce non per apparire, ma perché ci si aggrappa. Chi cammina scalzo, con il dolore nelle ginocchia e una preghiera in tasca. Quella è fede. Quella è religione. Il resto è rumore.
La devozione popolare non è in discussione. Anzi, va protetta come l’oro. È lì che la fede si fa carne. In chi piange senza volerlo, in chi crede senza esibire. Chi crede davvero non si fotografa. Non si mostra. Crede. Punto. E mentre le liturgie continuano, uguali e diverse, resta un punto fermo: la fede vera non si posta. Si porta. Si vive. Si soffre, a volte. Ma non si mostra.
La Settimana Santa dovrebbe riportarci a questo. A un centro che non cerca riflettori. A un Mistero che non si spiega in una didascalia. Perché se tutto diventa scena, se tutto si recita, se anche la Passione si prova, si rischia di perdere l’unica cosa che conta davvero: il silenzio di chi crede. Senza bisogno di altro. Perché tutto quell’altro, quel continuo esibire, quel cercare attenzione, è solo un espediente vuoto, che svuota il sacro di ogni significato. È un fastidio, una smania di protagonismo che soffoca la vera essenza della fede. E chi dovrebbe custodire il Mistero, chi dovrebbe preservarlo dal rumore del mondo, non fa che amplificarlo, trasformandolo in un palcoscenico per la propria vanità. È stucchevole, ridicolo, quasi disgustoso. Un abito sacro che invece di pregare, esibisce il proprio ego. L’invito, dunque, è soprattutto ai sacerdoti. Papa Francesco, in un suo recente intervento (Giovedì Santo 2025), ha loro ricordato, con forza: “Il pastore che ama il suo popolo non vive alla ricerca di consenso e approvazione a ogni costo”. Un invito a scendere dall’altare del protagonismo, a rinunciare a farsi vedere e ricordarsi che la vera luce viene dal servizio, non dall’attenzione dei riflettori.
E forse, questo è ciò che più manca oggi. Il saper essere custodi di quel silenzio che non ha bisogno di parole vuote da esibire o applausi da ricevere. Ma sufficiente perchè si torni a sussurrare il vero significato del sacro e soprattutto del Triduo Pasquale. Il resto è solo rumore.
Questo è un testo d’opinione. I fatti e le osservazioni qui riportati sono espressione di un punto di vista personale e non intendono offendere né ledere alcuno. Qualsiasi riferimento a persone o eventi è da considerarsi generico e non riferito a soggetti specifici.
(Se ti senti punto, forse il punto sei tu. Questa è una riflessione ruvida, certo. Ma non offensiva. E se ti offende, chiediti se è la verità a farlo. Non facciamo nomi. Se te ne viene in mente uno, è solo nella tua coscienza)