La parabola del figliol prodigo è un racconto che ci interroga. Ci parla di relazioni, di legami, di distanze. Un padre e due figli. Uno sperpera, l’altro si sacrifica. Ma chi realmente è il perduto? È il figlio che torna o quello che resta a casa? Ieri come oggi, la misericordia divina si scontra con la logica umana della meritocrazia. In questa IV Domenica di Quaresima, il messaggio è chiaro: nessuno è escluso dalla grazia.
Il figlio maggiore rappresenta un modello di comportamento comune eppure insidioso. È colui che compie opere buone, ma non per amore. No, egli lo fa per ricevere un riconoscimento, per ottenere una ricompensa. La sua fedeltà si trasforma in dovere, in obbligo. Non sente il calore dell’amore paterno; vede solo il peso delle regole da seguire.
“Io ti ho sempre servito…” esprime un grido d’animo profondo, una ferita aperta. Il cuore del figlio maggiore è distante dal Padre tanto quanto quello del fratello peccatore in viaggio lontano dalla casa. Qui si inserisce la domanda cruciale: perché non riesce a gioire? Perché l’amarezza prevale sulla celebrazione? Questo segna una fede inaridita.
C’è un’assenza di gioia nell’anima del giusto che non riesce a vedere oltre se stesso. Il riemergere del fratello perduto non suscita festa ma risentimento: “Questo tuo figlio…”. La durezza del suo cuore lo isola e lo acceca al punto da negare il legame fraterno.
San Francesco di Sales fornisce una chiave preziosa per comprendere questo atteggiamento: il vero cristiano sa gioire della gioia degli altri. Riconosce nell’altrui felicità l’opera di Dio. Eppure, qui abbiamo un uomo prigioniero della sua amarezza.
Invidia spirituale. Così la definisce San Tommaso nella sua Summa Theologiae. Una tristezza per il bene altrui vissuta come una perdita personale. Un vero dramma umano e spirituale si snoda davanti ai nostri occhi: il figlio maggiore non partecipa alla festa perché convinto d’essere stato trattato ingiustamente dal Padre.
Ma c’è una risposta del Padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,31). Queste parole sono uno squarcio nella nostra comprensione limitata dell’amore divino. Anche i giusti hanno bisogno di conversione; l’amore supera la giustizia.
Qui entra in gioco Sant’Ignazio di Loyola con gli Esercizi Spirituali: “Si serve Dio per amore o per paura?” Mettere a fuoco le proprie intenzioni diventa essenziale per vivere pienamente nella casa del Padre.
La vera conversione non consiste soltanto nel “non peccare”, ma nell’abbandonarsi all’amore divino come figli amati e riconosciuti da Dio stesso. La parabola ci invita a riflettere su quanto spesso viviamo nella nostra vita cristiana come se fossimo solo servi; dimenticando che siamo stati chiamati a riscoprire la nostra dignità di figli.
Nella meditazione dell’Angelus preparato dal Santo Padre Francesco durante questa IV Domenica di Quaresima, emerge questa stessa tensione tra merito e grazia, tra dovere e amore. Le sue parole richiamano ogni credente a riflettere sul proprio cammino spirituale e sulla necessità costante di apertura alla misericordia divina.
L’invito alla conversione risuona fortemente anche nell’approccio del Papa alla comunità ecclesiale: partecipare attivamente alla vita cristiana significa abbracciare tutti i fratelli senza eccezione; significa accogliere davvero la misericordia come stile di vita.
Misericordia universale. È questo il messaggio centrale della giornata liturgica odierna; un invito a guardare oltre le nostre ferite personali e le incomprensioni reciproche per scoprire quell’amore infinito che avvolge ogni creatura.
Ogni cristiano deve interrogarsi su come vive questa dinamica nel quotidiano: si è prigionieri della propria amarezza o capaci di aprirsi alla gioia dell’altro? Si crede superiori o si riconosce il valore dell’accoglienza?
La parabola del figliol prodigo ci offre quindi un percorso da seguire: comprendere che anche noi possiamo essere sia fratelli maggiori che minori all’interno delle nostre esperienze umane ed ecclesiali; ed entrambi necessitano della stessa dose d’amore paterno per ritrovare equilibrio nelle relazioni.