Non è la prima volta che parliamo di Papa Francesco, e sicuramente non sarà l’ultima. Il 13 aprile 2025, nella calca ribollente di 20.000 fedeli in piazza San Pietro, il Pontefice ha tirato fuori l’ennesimo colpo di teatro: un’apparizione a sorpresa per la Domenica delle Palme. E come si è presentato? In sedia a rotelle, con lo sguardo di chi ne ha viste più di quante ne possa raccontare. Chapeau, Sua Santità. Con una salute che scricchiola come una sedia vecchia, si impone un sorriso e regala al mondo un messaggio disarmante: “Buona domenica delle Palme, buona Settimana Santa“. Ma di cosa stiamo parlando, davvero?
Il Papa, seduto ma tutt’altro che piegato, ha raccolto ben più di un applauso. Ha spaccato il muro del disinteresse e ha mosso anche i cuori più arrugginiti, quelli che la fede la masticano poco ma che, vedendolo in TV, si sono detti: “Ecco uno che non molla l’osso.” Il cardinale Sandri ha presieduto la liturgia. Ma francamente: chi se n’è accorto? Il punto era altrove. Era in quell’uomo in bianco che, senza naselli per l’ossigeno e senza trucco di scena, si è mostrato nudo nella sua fragilità. Perché nascondersi? I fedeli non vogliono un Papa da santino, vogliono uno che non recita ma vive il suo ruolo. Che si consuma, non che posa.
Allora, basta ciance. Focalizziamoci sull’omelia — scritta da lui, letta da altri ma marchiata a fuoco dal suo spirito. Il tema? “Dio è nei volti straziati dalla guerra.” Altro che liturgie imbalsamate e dottrine col bollino anni ’50. Qui si parla di sangue e carne, di urla e silenzi, non di incenso e latinorum. Francesco rovescia il tavolo delle convenzioni: la fede, per lui, non è un soprammobile da lucidare la domenica. È una ferita aperta, da curare o almeno guardare senza girarsi dall’altra parte. Che ce ne facciamo di una Chiesa che legge il Vangelo con i paraocchi mentre fuori i fucili fanno da coro? Che si inginocchia davanti all’ostia ma chiude gli occhi davanti ai morti veri?
Francesco, all’Angelus, ha parlato del Sudan, della guerra, dei dimenticati sotto le macerie e nella polvere. “Rinnovo il mio appello alle parti coinvolte affinché pongano fine alle violenze.” Poche parole, ma taglienti come vetro rotto. Nessuna ambiguità, nessun latinorum: solo un pugno nello stomaco per chi preferisce le preghiere anestetiche alla responsabilità attiva. Il tempo delle messe silenziose è finito, o almeno dovrebbe esserlo. E allora proviamo, almeno, a dialogare prima che tutto vada in rovina — comprese le anime.
Belgio, Ucraina, Gaza, Myanmar, RDC: un elenco che somiglia sempre più a un bollettino di guerra che a una geografia. Eppure, mentre il mondo si sfalda, Francesco ci chiede di tenere accesa la lampada della compassione. Quella vera, non quella da salotto. “Sentiamoci avvolti dall’abbraccio provvidente del Padre.” Parole da scolpire sulle porte delle chiese e forse anche sui portafogli. Fortunatamente, Francesco ha ancora la libertà di dire quello che molti pensano ma nessuno osa più articolare. E mentre i dogmatismi giocano a fare i bulli, lui tesse una rete di umanità vera.
Insomma, Francesco non è lì per decorare il panorama. È lì per disturbare i custodi della polvere. Per dire che la fede non è proprietà privata ma un rischio pubblico. E non basta un diploma in Teologia per capirlo: serve stomaco, serve cuore, serve carne viva. Chi non lo ha capito, forse non ha mai pregato davvero — o l’ha fatto solo per abitudine, non per necessità.
Alla fine, Papa Francesco ci consegna una verità che scotta più di mille prediche: la fede non è un’urna sacra ma un respiro, un’urgenza, un rischio quotidiano. E se vi turba, meglio così. Le verità comode sono solo cioccolatini per l’anima. Quella vera — la fede vera — si fa sulle ginocchia, sì. Ma col cuore aperto e le mani sporche.